Il desiderio di custodire una viva integrità, ottenuta tramite rigorose abitudini alimentari e lavorative, così palese nel fisico asciutto e scattante, è il riflesso del suo modo d’intendere il vino. Non riusciremmo a immaginare Emidio alle prese col Barolo o col Brunello, che mostrano presto l’inclinazione a un’aristocratica maturità – pensiamo, per esempio, nel colore. Lui ha bisogno di “vedere” il sangue del Montepulciano, non importa che il vino sia in bottiglia da quarant’anni: se è a posto, il nostro pretende una complessità dalla fragranza giovanile. Eccolo il rosso che nasce dai tendoni abruzzesi dell’azienda Pepe: cupo nel colore, ricco, serio e promettente al naso, vellutato, incisivo e mobile in bocca, dalla lunghezza pregnante e capace di respirare nella persistenza.
È il “suo” vino. Lo si capisce passeggiando con lui nel vigneto, da come accarezza gli acini per saggiare la consistenza vellutata della buccia, dalla maniera con la quale piega i tralci per bilanciare il rapporto di luce e aria tra le foglie. E il Trebbiano? Fa a meno delle attenzioni maniacali che Emidio riserva al Montepulciano, mostra una fibra tenacissima e si comporta come fosse padrone del proprio silenzio.
Eppure il vitigno più bistrattato d’Italia produce bianchi emotivi ed energici, protagonisti di una tenuta eccezionale e di un’evoluzione sorprendente. Se per Pepe il Montepulciano è stata una conquista, grazie alla perseveranza nel tutelare potenzialità fino a quel momento pressoché insondate, il Trebbiano è stato un dono: se l’è ritrovato lì, pronto a emergere dalla generale mediocrità. Su un appunto di oltre trent’anni fa, Emidio fa riferimento allo stupore dei clienti per la rifermentazione in bottiglia del suo bianco, teoricamente fermo, e spiega quanto preziosa sia l’anidride carbonica come conservante naturale del liquido. Per la cronaca aggiunge: «Ti fa ricominciare la digestione sullo stomaco che si era momentaneamente fermato…». Sono i prodromi di una condotta naturale che nasce nel vigneto, amministrato con metodi tradizionali e compatibili con la vita, e si afferma in cantina attraverso la fermentazione spontanea. Nella gamma dei vini dell’azienda ne compaiono altri due, il Cerasuolo e il Pecorino. Se da un lato è evidente quanto Emidio non senta il Cerasuolo, al punto che non ne parla quasi mai, dall’altro alcune annate ci hanno donato un’etereità commovente nella quale è possibile scorgere il segreto evolutivo di tutta la produzione. Il Pecorino è oggi un bianco di moda. Pepe non si è sottratto e ha voluto provare a capire di che pasta è fatto, solo che gli è scappato di mano, come testimonia il prezzo molto più elevato rispetto al superiore Trebbiano. Peraltro i nuovi clienti lo chiedono e sono disposti a pagarlo. Per la qualità, ci vorrà tempo, come insegnano i tendoni delle vecchie viti di trebbiano e montepulciano, dalle quali sorge la tangibile relazione tra persistenza e complessità.
La scelta di far narrare ad Alice Colantonio e a Matteo Gallello nasce dalla necessità di immergermi nel dialogo con Emidio, tentando di non preoccuparmi troppo di come sarebbe stato organizzato il testo. La sua riservatezza, rotta qui e là da qualche ricordo, non è mancanza di generosità, credo sia legata all’idea primigenia di cavarsela da sé. Quando gli si chiede come si fa, come è riuscito, le risposte sono sempre brevi, essenziali, elementari. Devo aver avuto un’esperienza simile a quella di Peter Bogdanovich durante un’intervista a John Ford, uno dei più importanti registi della storia del cinema. Bogdanovich pendeva dalle sue labbra, sperava di approfondire l’evocazione letteraria e il côté artistico che aveva ispirato capolavori come “Ombre rosse”, “Furore” e “Sentieri selvaggi”. A un certo punto, dopo una serie di monosillabi, di fronte alla domanda su come avesse girato una lunga scena d’inseguimento con cavalli e diligenza, Ford seccato rispose: «Con una cinepresa, cos’altro volevi che usassi?!». Era il 1968, Ford aveva 74 anni e dalle immagini appare un po’ stanco, non ha molto da chiedere al tempo e non si aspetta nulla dagli altri. È una sensazione che Emidio non concede mai. Al nostro piace ascoltare, incontrare le persone, osservarle, come se stesse godendosi la pace del vigneto e la compagnia delle viti. Una foto pubblicata su www.porthos.it lo ritrae sotto un tendone abruzzese, ha un cestino che riempirà di fichi colti dagli alberi che circondano il terreno: è compiaciuto, sereno, non potrebbe stare meglio. Chi lo ha incontrato a Verona, a New York, a Tokio, o nella sua amata Australia, ha visto la stessa espressione.
Abbiamo affrontato il compito di scardinare il riserbo di Pepe con la collaborazione delle figlie Sofia e Daniela e della nipote Chiara, insostituibili per addentrarci nella laboriosa ricerca di testimonianze, documenti e diari di viaggio. Il loro desiderio di formalizzare l’eredità pratica e culturale del genitore, così da non disperdere
l’inestimabile esperienza accumulata in sessant’anni di carriera, è stato determinante. Un altro fondamentale aiuto è venuto da Rosa, la moglie: a lei ci siamo rivolti per dirimere gli intrecci di memorie che non tornavano. Dalla partecipe unità di contributi è scaturita una persona reale, della quale abbiamo delineato gli aspetti positivi, ma anche i punti dolenti e le controversie di un’esistenza vissuta intensamente. La lettura condivisa degli eventi si è tradotta in due voci narranti: Alice si è occupata della biografia di Emidio; Matteo si è dedicato alla sfera tecnica e produttiva, indagando sin dalle origini la scelta di diventare produttore. Ho fatto tesoro della diversità stilistica dei due giovani redattori, che l’hanno felicemente adattata ai rispettivi argomenti.
Il lavoro di Giulia Cerro è magnetizzato dall’avvenenza del protagonista, bello e fotogenico da sempre, come dimostrano le immagini del passato raccolte nella sezione “Ricordi”. Mi fa pensare a William Powell, celebre attore hollywoodiano degli anni trenta e protagonista, insieme a Myrna Loy, della serie di commedie sofisticate incentrate sulla figura dell’“Uomo ombra” di Dashiell Hammett. Di Powell Emidio ha il sorriso e l’eleganza dei modi, che sia impegnato alla guida del cingolato o che rappresenti la sua azienda in un evento pubblico. La nostra fotografa ha evitato di ritoccare il volto di Pepe, splendidamente segnato dall’età, e lo stesso ha fatto col meraviglioso viso di Rosa, e con gli altri componenti di questo nucleo densamente femminile. Si è introdotta nella loro quotidianità con estrema delicatezza, mimetizzandosi ha seguito l’intervista, le degustazioni, i lavori del vigneto e della cantina, cosicché ognuno potesse muoversi con la massima naturalezza. Il suo racconto per immagini anima una nota scritta da Alice, abruzzese di nascita: «Alla loro tavola tira un’aria familiare. Pepe la trasmettono senza ostentazione, sicuri che la storia darà loro ragione. Tra queste pareti, davanti alla nostra montagna c’è la vicenda di una terra che spesso coincide con quella di una famiglia. Come un classico popolare, dove la ripetitività di certe formule scandisce le idee essenziali, questo luogo del vino parla un linguaggio domestico e originario, dove è possibile distinguere, nella coralità dei gesti, la mano di un grande narratore».
Marcello Spada ama i vini di Pepe. Partecipò alla “spedizione” organizzata per l’articolo comparso su Porthos 20, dove pubblicammo una degustazione verticale del rosso. È stato naturale coinvolgerlo nella realizzazione del libro e chiedergli dei dipinti da usare in copertina e all’interno. Nei suoi lavori ho intravisto una convergenza con l’espressività di quei Montepulciano e Trebbiano impegnativi da decifrare. In entrambi i casi, dopo aver raccolto le “informazioni organolettiche” di base, è necessario distrarsi, lasciarsi disarmare dalla loro peculiare bellezza, proprio come recita Verlaine ne “La sinfonia del silenzio”: «Ieri parlavamo di molti argomenti / E i miei occhi cercavano i vostri. / Sotto il senso banale di frasi ricercate / Il mio amore cercava i vostri pensieri / E quando parlavate, io, volutamente distratto, / Prestavo orecchio al vostro segreto.